La recitazione molto efficace di Maria Rita Leotta conferisce al personaggio una decisa carica di realismo, che bene esprime la rabbia rivolta contro chi nulla ha fatto per aiutarla, pur sapendo tutto; questo comportamento sociale è indicato come il “peccato del silenzio” del contesto nel quale le è capitato di vivere nella sua infanzia e della sua adolescenza violata. Sciura vuole conoscere le proprie origini ed esprime la collera di una donna trattata come mero oggetto, senza la possibilità di ribellarsi a fronte delle minacce della propria madre, poi del marito, amante della madre, che le è stato imposto.
Nella rappresentazione si inserisce la figura dell’anziano padre del marito e del suo amante, quest’ultimo correo e condannato anche lui al carcere. L’interpretazione di questo personaggio ha confermato (qualora ce ne fosse bisogno) l’alto livello professionale di Melo Ingegnosi, che ha reso la figura con il suo tormento (“dove ho sbagliato?”) e la delusione che i suoi figli gli avevano procurato. Il terzo interprete, Sebastiano Lo Faro, ha ben rappresentato il marito-padrone che sottomette con la forza la moglie, senza darle alcuna via di scampo.
Interessante, comunque, la lenta ma progressiva metamorfosi della personalità della protagonista, che non si sviluppa per caso, ma è frutto dell’opera paziente e costante di psicologi, educatori e assistenti sociali che svolgono la loro attività professionale dentro la struttura carceraria, che lei prima rifiuta, non comprendendone il ruolo, poi man mano comincia a capire che il loro scopo è quello di farla “rinascere”, ascoltandola senza giudicare, per farle scoprire che è bello vivere nonostante tutto quanto è entrato con forza deflagrante nella sua esistenza.
In tutta l’opera, com’è ovvio, si riflette la visione dell’autrice, che riconosce la legittimità della pena, ma vede possibile il riscatto all’interno del carcere (pena rieducativa) e, soprattutto, lancia un messaggio per la prevenzione con l’aiuto della rete sociale presente in ciascun territorio, che dovrebbe accomunare, con compiti differenziati e pur convergenti, la scuola, la parrocchia, le associazioni di volontariato, le forze di polizia, i servizi sociali dell’ente locale. Gli indizi del disagio vanno colti per tempo, perché solo così si potranno evitare i danni che impediscono di coltivare l’autostima e la voglia di vivere.
L’opera teatrale, già rappresenta all’interno del carcere catanese di Piazza Lanza (era presente nell’aula magna anche la direttrice Zito), ora proposta agli studenti del Liceo con un dibattito guidato magistralmente dal magistrato catanese Marisa Acagnino, meriterebbe di essere rappresentata in tante altre scuole ed anche in contesti associativi, al fine di sensibilizzare tutti noi cittadini, che non dobbiamo ritenerci estranei a queste problematiche col rischio, in caso contrario, di risultare complici del degrado e della violenza distruttrice.
Giovanni Vecchio