Precario, per grande passione

Il vulcanologo Boris Behncke, dell’Ingv della sezione di Catania (Osservatorio Etneo) parla dell’Etna e dell’evoluzione che sta conoscendo il mondo della ricerca e della prevenzione delle catastrofi

Nel nostro Bel Paese, ogni qual volta accade un evento calamitoso o una catastrofe di particolare gravità, soprattutto se l’episodio provoca danni fisici o patrimoniali alle persone, il fatto desta grande clamore e l’opinione pubblica entra in una sorta di sconforto collettivo che determina un’angoscia transitoria.

In fatto di calamità naturali – vuoi per la presenza di vulcani e di faglie attive, vuoi per un diffuso dissesto idrogeologico, unitamente ad altri fattori predisponesti, ricollegabili all’attività antropica e all’imprevidenza – la Sicilia è tra le regioni più soggette a rischio catastrofi. Tuttavia la sismicità e il vulcanismo sono i fenomeni di maggiore pericolosità per il territorio ionico-etneo. L’attività vulcanica dell’Etna, benché rappresenti un alto rischio che incombe su oltre un milione di persone, spesso è sottovalutata. Contrariamente ai terremoti per i quali – purtroppo – la scienza non è riuscita ancora a sistemare metodi di previsione fondati su solide basi scientifiche, le eruzioni vulcaniche possono essere previste con una precisione ormai sempre maggiore.

In conseguenza di severe calamità naturali, da qualche decennio l’Italia ha sviluppato un sistema di protezione civile tra i più efficaci che esistano al mondo. Diverse strutture, direttamente finanziate dallo Stato e localmente dalla Regione Siciliana, vigilano sui fattori di rischio per la popolazione. Vulcani e faglie sono quotidianamente studiati e monitorati dall’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), un ente di diritto pubblico dotato di autonomia amministrativa e gestionale che, attraverso un team di personale altamente specializzato che si avvale anche di una sofisticata strumentazione scientifica, svolge funzioni di sorveglianza sismica e vulcanica.

Ma chi sono questi operatori scientifici che vi prestano la loro opera? Noi abbiamo raccolto, simbolicamente, l’esperienza di uno di loro, Boris Behncke, un vulcanologo “precario” dell’Ingv della sezione di Catania (Osservatorio Etneo), un cittadino tedesco che ha preferito soddisfare il bisogno smisurato di conoscenza e di amore verso l’Etna e la Sicilia, lasciando i propri affetti, la patria di origine e una carriera, molto probabilmente, più sicura e meglio remunerata per vivere ai piedi del vulcano più alto del continente europeo. Un percorso inverso di emigrazione di cervelli da nord a sud, ma qui c’è il rischio precariato.

Grazie al capillare attivismo nei social network e alla partecipazione a numerose iniziative per il pubblico, nel contesto della volgarizzazione del vulcanismo etneo, Boris Behncke è diventato negli ultimi anni un punto di riferimento e un’interfaccia tra le informazioni scientifiche e la divulgazione di massa. Nato in Germania, a Francoforte sul Meno, poco più di cinquant’anni fa, da quasi vent’anni vive in Sicilia insieme alla moglie Catherine (di origine francese) e alla piccola Ida. Perfettamente integrato alla più nobile cultura locale – cui detesta, però, anche duramente, l’insensibilità degli indigeni alla questione “monnezza” nelle varie accezioni che l’espressione comporta – oltre ad essere poliglotta, parla simpaticamente pure il dialetto catanese. Dal 2010, è responsabile della parte vulcanologica e degli aggiornamenti sugli eventi vulcanici sul sito dell’Osservatorio Etneo. Inoltre è autore e coautore di oltre trenta pubblicazioni apparse in riviste internazionali e vanta numerose partecipazioni in convegni. Infine, numerosi rapporti sull’attività eruttiva dei vulcani siciliani degli ultimi anni portano la sua firma. Una passione lontanissima, fin dall’adolescenza, lega Boris Behncke ai fenomeni naturali. Di primo acchito di lui si apprezzano l’umanità e – per un tedesco – l’insolito modo latino di presentarsi al pubblico. Insomma, un approccio in stile “stand-up comedy” come ama definirlo lui stesso.

– Dottor Behncke, ma quando e come nasce la sua passione per la vulcanologia e perché ha scelto di approfondire la sua conoscenza dell’Etna?

«Mentre ero adolescente e vivevo ancora in Germania con i miei genitori, casualmente, mi è capitato di sfogliare una pagina di cronaca internazionale di un noto giornale tedesco che mio padre aveva appena acquistato. I miei occhi fissarono un lungo articolo su una spettacolare e drammatica eruzione del vulcano di Heimaey (Islanda). Questa lettura stimolò la mia curiosità. Pertanto, nei giorni successivi, chiesi ai miei genitori di procurarmi altri articoli con gli aggiornamenti dell’eruzione in corso, che durò ben cinque mesi. Nel frattempo, tra le righe degli articoli spuntavano i nomi di altri vulcani tra cui l’Etna. Di questo vulcano avevo già sentito parlare anche nei notiziari e nel mio immaginario lo pensavo mitologico e attivo con eruzioni pericolose. In proposito mi colpì la notizia della tragica escursione alla “Bocca Nuova” del 12 settembre 1979 con nove morti e ventitré feriti e l’eruzione del 1981 che sfiorò l’abitato di Randazzo. Visitai l’Etna per la prima volta a settembre del 1989 e subito il vulcano mostrò quel che sarebbe diventato negli anni a venire, il suo modo più caratteristico di eruttare: il parossismo».

– Chi sono stati i suoi maestri e a quale modello si ispira nel metodo di ricerca e di divulgazione?

«Nella mia carriera ho avuto diversi “maestri”. Per fare un esempio, leggendo i libri di Haroun Tazieff ho avuto una sorta di “ispirazione” per la divulgazione e la comunicazione, settori in cui lo stesso Tazieff fu sicuramente un pioniere a differenza dei suoi limiti di vulcanologo. Tuttavia, chi ha profondamente segnato il mio percorso universitario è stato il famoso professor Hans-Ulrich Schmincke con il suo metodo che punta molto sul rapporto fra i vulcani e gli esseri umani».

– Dottor Behncke, ci racconti la sua carriera accademica e la sua storia professionale.

«Il percorso intrapreso per arrivare all’attuale ufficio è stato lungo e tortuoso. L’interesse e la passione per i vulcani hanno condizionato le mie scelte fin dagli studi universitari, che ho completato con il dottorato in vulcanologia. Ho intrapreso gli studi nella città di Bochum. Durante questo periodo, ho iniziato a visitare la Sicilia e l’Etna sempre con maggiore frequenza, fino all’attrazione finale. Durante i miei soggiorni siciliani sono nati dei contatti con l’Università di Catania e, in questo frangente, il Prof. Mario Grasso mi propose di svolgere uno studio sperimentale sui monti Iblei, zona vulcanica ancora poco esplorata. Ne è nato il progetto per la mia tesi di laurea, che ho conseguito all’Università di Kiel (nell’estremo nord della Germania). Dopo la laurea conseguita in Germania decisi di invertire rotta ed emigrare verso sud. Così, a gennaio del 1997, arrivai a Catania per partecipare alla selezione di un bando di concorso per l’ammissione a un corso di Dottorato di Ricerca presso la locale Università. Conseguito il Dottorato, sono passati diversi anni prima che potessi accedere nel mondo del lavoro per cui mi ero preparato e specializzato. Finalmente, ad aprile 200,5 ho sottoscritto un primo contratto di lavoro a tempo determinato con l’Ingv. Così anch’io faccio parte dell’enorme bacino di precari all’interno dell’Istituto».

– Quali compiti gli sono assegnati all’interno del gruppo di lavoro dell’Ingv di Catania?

«Un primo compito è la ricerca nel campo delle fenomenologie eruttive dell’Etna che mi ha portato anche a integrarmi nella squadra responsabile della cartografia (mappatura) dei prodotti delle eruzioni in corso (colate di lava e nuove forme morfologiche come i coni piroclastici di neo formazione). Spesso, collaboro con i colleghi nel campo della sismologia o delle deformazioni del suolo, per mettere a confronto diverse tipologie di dati e informazion,i in modo da ampliare reciprocamente le conoscenze nei vari campi di ricerca».

– Qual è l’attuale stato di “salute” dell’Etna?

«In questo periodo l’Etna gode un ottimo stato di salute. Sicuramente, stiamo assistendo ai più alti livelli di attività degli ultimi secoli e forse degli ultimi millenni, come sostiene qualche mio collega. Ciò nonostante la fenomenologia pare non accenni a diminuire nei prossimi tempi»

– Le eruzioni di fianco sono le più pericolose per i possibili danni a esseri viventi e cose. Negli ultimi secoli si è registrata un’alta frequenza di violente eruzioni di fianco localizzate soprattutto nel settore nord e ovest del vulcano. C’è una spiegazione scientifica del fenomeno?

«Le eruzioni di fianco (termine che comprende le due tipologie etnee, eruzioni laterali ed eccentriche) sono una caratteristica dell’attività dell’Etna, non solo degli ultimi secoli ma da decine di millenni. Queste sono le eruzioni più temibili, poiché avvengono con relativa frequenza e a intervalli che variano da “fra qualche mese” a “fra qualche decennio” e possono rappresentare una concreta minaccia per centri abitati e per i terreni coltivati, nonché per le infrastrutture e gli altri ambienti d’interesse per l’uomo. Tipologicamente, le eruzioni di fianco sono concentrate in determinati settori del vulcano, soprattutto nelle tre zone di “rift” – a nord-est, a sud, e a ovest – dove si osserva una più alta densità di centri eruttivi (conetti e fessure eruttive) rispetto agli altri settori dell’edificio vulcanico. Le eruzioni sul “rift” di nord-est sono soprattutto una potenziale minaccia per Linguaglossa, Rovittello e Passopisciaro (come si è visto durante le eruzioni del 1879, 1911 e 1923). Invece, l’eruzione del 1981 (Randazzo) è uscita dal trend del rift di nord-est, prendendo una direttrice più verso nord-nordovest. Le eruzioni “laterali”, che sostanzialmente sono alimentate dal condotto centrale dell’Etna, sono facilitate da fasi di instabilità del vulcano, che permette al magma di “sfondare” facilmente un fianco della montagna e uscire lateralmente, drenando il condotto centrale. Poi, ci sono le eruzioni di fianco che avvengono quando il magma spinge con forza dal basso verso l’alto, com’è accaduto (almeno in parte) nel 1981 e nuovamente nel 2001 e nel 2002-2003».

– Storicamente, sappiamo che l’attuale sito su cui è costruito il borgo medievale di Randazzo non è stato distrutto né da terremoti, né da colate laviche sebbene le zone circostanti siano state continuamente invase da colate di lava. Una leggenda, addirittura, narra che si tratti di un antico miracolo della Madonna. Come si pone la scienza di fronte a questo dato storico-statistico?

«Il fatto che la lava raramente distrugga per intero (o anche solo parzialmente) un centro abitato è, sicuramente, un sintomo dei saperi dell’arte di costruire le città da parte di genti vissute moltissimi secoli fa e di una forte capacità di osservazione del vulcano. Per esempio, la zona di Mascali, paesino distrutto quasi completamente nel 1928 da un’eruzione sorta in località Ripe della Naca, non era stata interessata da colate laviche da almeno quindici mila anni. La situazione di Randazzo è simile. È una zona dove l’attività eruttiva avviene meno frequentemente rispetto alle classiche zone di “rift”. L’ultima eruzione che interessò la zona di Randazzo (prima di quella del 1981) risale intorno all’anno 950 e qui potrebbe aver giocato un ruolo il detto, diffuso da queste parti, che dice: “Là dove è passata una colata di lava, non ne passerà più un’altra”. Lo stesso ragionamento potrebbe aver ispirato anche la fondazione di Linguaglossa, pochi anni dopo una grande eruzione la cui colata si fermò a pochissimi passi da dove oggi sorge l’abitato. Infine, sul rapporto fra la gente, i loro santi e il vulcano dico spesso, scherzosamente, che deve essere generalmente un rapporto favoloso, i casi di miracoli avvenuti in determinati luoghi e in determinati momenti sono ben documentati e quindi – anche se mi considero credente in un mio modo molto personale, non aderente a nessuna delle grandi religioni – c’è poco da dire, la scienza può dare tante risposte ma non tutte».

– Grazie al monitoraggio che, giornalmente, esegue l’Ingv c’è più sicurezza per la popolazione. Ci sono margini di miglioramento con l’eventuale integrazione di nuova strumentazione scientifica al momento non posseduta dall’Istituto?

«Sicuramente, rispetto al passato, c’è una maggiore capacità nel riconoscere i segni premonitori di eventuali eruzioni pericolose, cioè quelle di fianco. Grazie al costante monitoraggio delle emissioni di gas, inoltre, siamo in grado di sapere persino quando il magma sta per arrivare in superficie. Osservando e concatenando i dati “multi parametrici” abbiamo, quindi, un ampio spettro di informazioni che ci aiutano a formulare ipotesi attendibili di quel che in un dato momento sta succedendo all’interno del sistema vulcanico etneo. Certamente, si dovrà incrementare soprattutto il numero delle webcam dell’Ingv per coprire quei settori di territorio etneo ancora non raggiunti dall’osservazione tramite telecamere (versante nord e ovest). A dir il vero, dove c’è più bisogno di miglioramento è nella comunicazione e nella divulgazione. La popolazione intorno al vulcano deve avere un ruolo molto più attivo in tutte le questioni di consapevolezza, di conoscenza e di tutela dai possibili rischi. Avere la conoscenza delle criticità e sapere rispondere a una situazione d’emergenza ha salvato, probabilmente, decine di migliaia di vite in alcuni casi, come a Rabaul in Papua Nuova Guinea nel 1994, quando una violentissima eruzione ha avuto inizio nei pressi di una città di 30 mila abitanti svuotatasi per tempo, prima che il vulcano la colpisse. E questo è successo non in Giappone oppure in Germania, ma in Papua Nuova Guinea. Purtroppo, debbo dire che qui in Italia nel 2014, vent’anni dopo l’eruzione di Rabaul, siamo ancora molto indietro rispetto a quella gente di vent’anni fa».

Dunque, per evitare o ridurre al minimo la possibilità che si verifichino danni conseguenti a un evento calamitoso, la prevenzione rimane un elemento fondamentale del sistema, ma sul piano tecnico-organizzativo e soprattutto su quello economico-finanziario essa è trascurata comunemente sia dalle istituzioni pubbliche sia dalla popolazione. Pertanto, la pianificazione di emergenze, le esercitazioni di protezione civile, la formazione, l’informazione e la sensibilizzazione della popolazione sono attività che vanno svolte costantemente e mai tralasciate o minimizzate.

Gaetano Scarpignato