«L’Italia, che era la patria dell’architettura, ammazza gli architetti!». Così si esprime senza mezzi termini Giuseppe Scannella (nella foto a sinistra), presidente dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Catania, manifestando con forza tutta la rabbia per gli epiloghi drammatici degli ultimi giorni, gesti estremi che risuonano come un vero e proprio campanello d’allarme, espressione della disperazione di una categoria in ginocchio.
«Si sta perdendo, oltre al lavoro, anche la speranza e la possibilità di sostenere la famiglia e non si tratta purtroppo del primo episodio, perché anche negli anni passati sono avvenuti casi che non hanno avuto risalto mediatico. La gente si ammazza per disperazione e noi non intendiamo rimanere indifferenti, soprattutto perché lo stato di gravissima crisi e sofferenza che la professione tecnica in generale vive è ormai troppo pesante».
– È stata la recessione degli ultimi anni a far piombare la categoria in questo stato?
«La situazione attuale non è causata dalla crisi economica, che certamente ha aggravato alcuni effetti, ma da provvedimenti sbagliati, demagogici e scientificamente penalizzanti, che i vari governi che si sono succeduti almeno negli ultimi dieci anni hanno preso nei confronti delle professioni tecniche. Ad esempio, l’abolizione dei minimi tariffari introdotta da Bersani rispondeva a direttive europee secondo il governo Prodi. Nulla di più falso, perché la Germania (Paese europeo per eccellenza!) ha le tariffe obbligatorie e non ho visto una risoluzione di condanna dell’Europa nei suoi confronti. Quindi non solo hanno fatto del danno, ma l’hanno fatto imbrogliandoci!».
– Quindi ritiene che i provvedimenti dei governi passati abbiano penalizzato le libere professioni. In che maniera?
«Le professioni in genere hanno rappresentato una porzione del PIL che varia dal 12 al 15%. Una montagna di soldi – spiega il presidente –. C’è stato un momento in cui una certa parte dell’imprenditoria ha deciso che quello era un buon affare e che se ne doveva appropriare. Così sono cominciati i problemi, aggravati anche da alcune riforme universitarie scriteriate volte a triplicare o quadruplicare il percorso dell’architettura. Hanno creato così 4-5 figure professionali che vanno a finire nell’albo degli architetti, imbrogliate per la mancanza di sbocchi lavorativi. La stessa cosa hanno fatto con ingegneria e con le altre professioni, ottenendo il risultato di moltiplicare corsi di laurea e cattedre, facendo esplodere i costi dell’università senza alcun incremento nella qualità dei professionisti, anzi ottenendo l’effetto contrario. Lo vediamo ogni anno quando misuriamo la preparazione dei neolaureati, per cui siamo costretti ad organizzare dei corsi per rendere possibile la partecipazione all’esame di stato. Dopo la riforma universitaria il numero dei nostri iscritti era aumentato, mentre da circa due anni a questa parte stiamo assistendo ad un’inversione di tendenza, perché il fatto che questo mestiere non offra più prospettive è ormai lampante. Altro fattore che incide pesantemente è l’eccesso di burocrazia, dovuto alla miriade di leggi e cavilli che abbiamo in Italia. Come può mai andare avanti il settore edile, che è uno dei più tartassati dal punto di vista della normativa, quando per aprire una finestra ci vogliono pareri come se dovessimo costruire la Torre Eiffel?! Per contro tolgono dei visti e dei pareri che invece sono importantissimi, perché la loro mancanza può mettere a rischio la stabilità di interi fabbricati, come con l’ultima norma che ha eliminato la necessità di un’autorizzazione quando si fanno modifiche interne. I danni che si possono fare sono incalcolabili e non si vedono subito, ma possono portare al crollo di interi fabbricati improvvisamente. In Italia, inoltre, c’è un’assoluta confusione sulle competenze: è una cosa che non ha uguali nel mondo! Nel resto del pianeta quando si parla di trasformazione del territorio l’unica figura abilitata è l’architetto, coadiuvato da altre figure professionali, ognuna con le proprie competenze. Una logica di sistema per cui la professione, intesa nel senso complessivo, offre un servizio. Bene, in Italia no. Nel nostro paese le case costruite dagli architetti dal dopoguerra in poi sono solo il 5%, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Chiunque può fare qualsiasi cosa o non è certo di non poterla fare, per cui alle tante altre questioni si aggiungono gli infiniti contenziosi in cui le corti decidono una volta in un modo e un’altra nel modo opposto. Da non dimenticare il mostro giuridico che si chiama Codice dei contratti pubblici, con cui si doveva garantire la trasparenza e l’apertura del mercato. Invece, con dati dell’Agenzia delle Entrate alla mano, posso affermare che al mercato dei lavori pubblici in Italia può partecipare soltanto lo 0,7% dei professionisti, poiché i requisiti richiesti per poter partecipare sono posseduti solo da questa esigua percentuale. Dicono di aver fatto norme per i giovani professionisti, ma di fatto nessuno di essi potrà mai partecipare agli appalti con queste regole».
– Cosa chiedete?
«Chiediamo che il mercato sia effettivamente aperto, per avere concorrenza sulla qualità e non sul prezzo, e di essere pagati secondo l’art. 36 della Costituzione. Mi duole riconoscere che la politica italiana, fino ad oggi, non conosce altra lingua che quella della protesta di piazza. Tutte le proposte che negli anni abbiamo avanzato sono cadute nel vuoto, come quando abbiamo chiesto che si semplificassero le norme».
– L’attuale governo ha introdotto qualche norma…
«Quelle che ha fatto il governo Renzi sono dei piccoli palliativi che servirebbero per un paese normale, non per l’Italia. Quando qui ci sono 150mila architetti e in Francia ce ne sono circa 30mila, ma con alle spalle un mercato di progettazione che vale dieci volte tanto, viene da sé che non ci può essere lavoro – continua Scannella. – Abbiamo chiesto che si partisse con una seria politica di riqualificazione delle città, senza costruire volumi, ma anche allora non se n’è fatto niente. Abbiamo chiesto che ci si occupasse dell’ambiente. Lo si è fatto solo a parole. Abbiamo chiesto cose che non sono utili solo per gli architetti o per gli ingegneri, ma per l’intera nazione, perché rimetterebbero in moto un ciclo economico importante. Non possiamo più stare a guardare. Sentiamo la responsabilità di rappresentare i nostri iscritti, che ci chiedono di fare qualcosa. Si è appena concluso, infatti, il workshop internazionale di progettazione “Aretè, abitare le rovine”. Questo progetto culturale – organizzato da Fondazione e Ordine degli Architetti di Catania in collaborazione con l’Associazione Officina 21 e con la partecipazione della Sovrintendenza ai Beni Culturali – è nato dalla voglia di cambiare in meglio le nostre città utilizzando le nuove metodologie per il recupero di edifici e luoghi abbandonati presenti nei territori scelti come teatro del workshop, cioè Catania, Acireale, Giarre, Caltagirone e Militello, per un totale di sei progetti presentati».
– Come definirebbe il vostro rapporto con le amministrazioni locali?
«Abbiamo una buona interlocuzione con l’attuale amministrazione del sindaco Bianco, così come l’avevamo con quella precedente di Stancanelli e, a livello regionale, anche con il presidente dell’ARS attraverso la nostra consulta. Il problema è che, ahimé, raramente alle proposte fanno seguito fatti concreti».
Mariagrazia Miceli
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