39 anni fa, la mafia uccideva il giornalista Mario Francese
La sera del 26 gennaio 1976, a Palermo, veniva trucidato dai killer della mafia, Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia,colpevole di aver individuato, prima di tutti, l’esistenza della “cupola” di Cosa nostra. In ricordo di Mario Francese e non solo, tratto dal libro “Liberi tutti. Lettera a un ragazzo che non vuole morire di mafia”, Sperling & Kupfer – 2012, il brano che segue: “La battaglia quotidiana tra il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio. La mafia, che ricerca il consenso di fasce sociali sempre più estese, teme gli attacchi sul terreno della comunicazione e dell’azione sociale almeno quanto quelli dell’azione repressiva. Lo dimostrano gli omicidi di un parroco come padre Pino Puglisi, di cui ho già raccontato la storia, di ben nove giornalisti, di un imprenditore come Libero Grassi e di tante altre persone impegnate proprio a sottrarre alle organizzazioni mafiose la loro egemonia sul terreno culturale e sociale. È triste ammetterlo, ma in Italia ci sono regioni in cui un giornalista che descriva senza veli la realtà del potere rischia la vita; in cui si combatte una battaglia quotidiana tra la passione, il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio, che diventa violenza, intimidazione, minacce di morte che si materializzano in pallottole ricevute per posta o che frantumano i vetri delle finestre di casa, lettere minatorie, copertoni tagliati, automobili date alle fiamme. La mafia pretende il silenzio e mal digerisce i giornalisti scomodi. Cosimo Cristina – il primo dei nove giornalisti uccisi in Sicilia – non aveva ancora compiuto venticinque anni quando fu ucciso a Termini Imerese.
Era il 5 maggio 1960, lo fecero trovare morto sulla ferrovia, come Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978. Dopo Cristina toccò a Mauro De Mauro nel 1970. Due anni dopo a Giovanni Spampinato. Poi a Mario Francese, nel ’79, a Giuseppe Fava nel 1984, a Mauro Rostagno nel 1988 e cinque anni dopo, nel ’93, a Beppe Alfano. In Campania, nel 1985, era stato ammazzato Giancarlo Siani. Per tutti, dopo la morte, si è messa in movimento la macchina del fango per screditare e annullare quel che avevano detto o scritto, con l’immancabile corollario dei depistaggi. Alcuni di essi sono stati «suicidati» e solo dopo decenni si sono accertate alcune responsabilità, mentre per altre vittime ancora non si conoscono i mandanti e gli esecutori. Di Mario Francese ho un ricordo personale. Ogni mattina passava dalla mia stanza di giovane sostituto alla Procura di Palermo, si sedeva davanti al mio tavolo e con fare scherzoso, aprendo il suo immancabile quaderno, mi chiedeva: «C’è niente? Qual è il menu di oggi?» Poi, alla mia consueta risposta negativa, si intratteneva un po’, raccontandomi storie raccolte nei mercati popolari di Palermo, tra la gente, sostenendo che la verità, secondo il detto in vino veritas, era disposto a cercarla anche nelle osterie. Negli ultimi tempi era molto interessato a un’indagine che stavo svolgendo sulle espropriazioni miliardarie dei terreni per la costruzione della diga Garcia, alcuni dei quali appartenevano ai cugini Salvo, gli esattori di cui ancora non si conoscevano i legami mafiosi. Dopo la sua morte, seppi che aveva svolto un’approfondita e particolareggiata inchiesta giornalistica sugli omicidi e sui rilevanti interessi mafiosi che riteneva collegati alla costruzione della diga. Fu il primo cronista a fare il nome, sul Giornale di Sicilia per il quale seguiva la cronaca nera e giudiziaria, di Totò Riina e delle imprese a lui collegate.
I suoi dossier, in diverse puntate, furono pubblicati dopo la sua scomparsa. Da quegli articoli, secondo me, appariva chiara la ragione del suo assassinio: aveva capito e denunciato la trasformazione imprenditoriale dei Corleonesi, e stava approfondendo la questione fino a cogliere, lo possiamo comprendere soltanto ora, relazioni e collegamenti con persone insospettabili, come i Salvo.Il figlio di Mario Francese, Giuseppe, aveva dodici anni quando vide il corpo del padre colpito a morte sotto casa. Sentì tutti e sei i colpi di pistola, scese in strada, ma soltanto quando arrivò qualcuno dal giornale dove lavorava il padre seppe di chi era quel corpo steso nel parcheggio e coperto da un pietoso lenzuolo insanguinato. Per vent’anni ha cercato testimonianze e raccolto materiali, restando sempre in contatto con la procura, alla quale aveva fornito tutti i documenti e gli appunti del padre ancora in suo possesso. Pur avendo, come vittima della mafia, un comodo posto alla Regione siciliana, non ha smesso un attimo di fare il giornalista investigativo, finché ha visto condannati Leoluca Bagarella, l’esecutore materiale del delitto, e metà dei membri della Cupola, fra i quali Totò Riina, Francesco Madonia, Michele Greco e Bernardo Provenzano. Il giorno dopo la sentenza di primo grado, Giuseppe scrive un biglietto: «Ho svolto il mio compito, ho fatto il mio dovere, vi abbraccio tutti, scusatemi». E si uccide. Un giornalista che si toglie la vita per non morire di mafia. Di fatto, il nono giornalista ucciso dalla mafia.«Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere.» Così scriveva nel 1981, sul Giornale del Sud, Giuseppe Fava…”.