Il 25 aprile di quest’anno non è mai arrivato per il partigiano Antonino Mangano, classe 1921; dopo giorni di sofferenza nel conforto dei suoi cari ha chiuso gli occhi per sempre il 24 aprile scorso poco prima della mezzanotte.
La sua storia, da un’intervista a Santina Sconza, presidente provinciale A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) di qualche anno inizia così.
– Raccontami la tua storia da militare?
«A venti anni, nel 1940, sono chiamato alle armi e inviato a Torino alla scuola di Guerra di Cavalleria 2° squadrone Palafrenieri, dove mi occupo dei cavalli. Nel 1942 mentre sono momentaneamente trasferito alla Reggia di Venaria per occuparmi di alcuni cavalli malati, la sede della scuola di Guerra è bombardata durante un attacco aereo. Dopo il bombardamento, sono richiamato immediatamente a Torino e trasferito a Salsomaggiore, dove m’inviano a fare la guardia a due alberghi il Porro e il Valentini. Qui alloggiano i militari che frequentano la scuola ufficiali, oltre a noi vi era anche una guardia di civile. Tutto procede senza problemi fino al 8 settembre 1943; il giorno dopo una moto tedesca con due militari gira tra le case di Salsomaggiore, allarmati io e altri quattro militari ci rifugiamo a casa di Dante Battistini una delle guardie civili. Il 10 settembre arrivano diversi camion di tedeschi per un rastrellamento. Sono momenti drammatici: non sappiamo cosa fare, le donne di casa Battistini ci convincono a strappare i documenti militari e passare per civili, così per copertura andiamo a lavorare in una fornace, per la cottura dei mattoni, diretta da Sebastiano Maugeri. Nella fornace lavora anche un vecchio operaio antifascista Runzoni che, di nascosto, organizza i partigiani. Tramite il suo aiuto siamo arruolati e armati e abbiamo le indicazioni per raggiungere le brigate partigiane in montagna. Ci incamminiamo per raggiungere i valichi controllati dai partigiani, ma attraversando un campo di mais, ci viene incontro una donna che grida: “Scappate, tornate indietro, dove andate? Più avanti è pieno di tedeschi, c’è un rastrellamento!”. Impauriti, torniamo di corsa alla fornace, dove Runzoni ci nasconde, per alcuni giorni, tra i mattoni che erano stati sistemati in modo da fornire degli anfratti dove riparasi e nascondersi».
– Qual erano le brigate partigiane che operavano nella zona cui hai aderito?
«Attestati sui monti di Salsomaggiore, attorno ai valichi di S. Antonio e Pietra Nera, c’erano i partigiani della 31° Garibaldi divisi in due gruppi distaccamento Bottoni e Vignali, da queste basi partivano le incursioni contro i trasporti tedeschi. I due distaccamenti prendono il nome da due caduti della battaglia di Luneto. La battaglia di Luneto avvenne il 14 luglio del 1944: le truppe partigiane avevano occupato tutta la zona delle montagne della provincia di Parma, e da qui compivano continui attacchi in pianura e ai reparti che transitavano sulla via Emilia. Il comando tedesco per fermare la continua emorragia di mezzi e uomini decise un rastrellamento, con l’impiego di ventimila uomini oltre a numerosi mezzi blindati e aerei da ricognizione. Quel giorno un minuscolo gruppo di partigiani si oppose ai tedeschi per ritardare l’avanzata del nemico e facilitare la ritirata dei reparti partigiani, cinque partigiani trovano la morte tra cui i fratelli Rolando ed Emilio Vignali, Carlo Bottoni, Vittorio Sorrenti e Armando Leone».
– Qual era la vostra missione?
«Il nostro compito era di rendere insicura la via Emilia al passaggio dei tedeschi e di tenere sotto pressione il presidio di brigate nere di Salsomaggiore. Le incursione contro i camion nazisti avvenivano preferibilmente di notte ed essendo in pochi attaccavamo gruppi non troppo numerosi, cercavamo di fermarli con vari trucchi. I Partigiani di Fidenza usavano la tattica di piazzarsi in mezzo alla strada in modo da far rallentare i camion che transitavano, ma i tedeschi si erano fatti molto sospettosi, e quando vedevano qualsiasi movimento lungo la strada aprivano immediatamente il fuoco. La nostra tattica era di far nascondere sul ciglio della strada un nostro compagno mentre noi ci appostavamo a 200 metri dopo, in modo che lui avesse tutto il tempo per identificare il tipo di trasporto che transitava e darci il segnale per l’attacco. A volte i tedeschi furbescamente avevano con loro una donna che gridava: “Siamo civili” nella speranza che cadessimo nell’inganno. Una delle principali azioni cui ho partecipato, è stata l’attacco al villino Catena di Salsomaggiore una caserma fortino della brigata nera, nella notte tra 1 e il 2 novembre del 1944, l’azione nacque dalla necessità di liberare un nostro compagno caduto prigioniero, Eugenio Canali nome di battaglia “Geni”. All’attacco partecipò tutto il battaglione, il villino era una specie di fortezza difficile da espugnare e ben difeso, la nostra arma principale era una grossa mitragliatrice Breda 37, prima dell’attacco tagliammo i fili telefonici per impedire richieste d’aiuto. Piazzammo delle bombe per aprire dei varchi, questo incarico fu dato a “Ricciolino” un ragazzo fiorentino che si ferì, perché una bomba scoppiò all’improvviso. Lo scontro si protrasse fino alle 10 del mattino con la liberazione di Geni, che era stato torturato ed era irriconoscibile e di altri cinque ragazzi non partigiani prigionieri dei fascisti. Cinque fascisti riuscirono a fuggire attraverso un tunnel, molti furono catturati e il fortino smantellato in modo da non poter essere più utilizzato. Diversi fascisti furono feriti durante l’attacco, il comandante della caserma morì alcuni giorni dopo a Parma per le ferite riportate. In questa occasione ho conosciuto un compagno di Giarre, Sicurella, col nome di battaglia “Riccardo” che ricopriva i gradi di comandante. Altre azioni da noi compiute sono state due incursioni notturne alla polveriera di Noceto, dove ci siamo impossessati di notevoli quantità di munizioni. Alla stazione di Faenza, i nostri gruppi si sono impossessati di cinque cannoncini da 47/32 razziandoli da un treno tedesco mitragliato da aerei degli alleati. Ho partecipato a numerose azioni, ero sempre in prima linea, una volta siamo andati alla caserma dei tedeschi di Salsomaggiore per impadronirci di alcuni mezzi di trasporto, in quel garage erano di guardia due russi che d’accordo con i partigiani, ci permisero di prendere due camion una macchina e una moto, loro con la scusa di essere nostri prigionieri si trasferirono in montagna a combattere al nostro fianco. Quando la guerra volgeva al termine e il destino dei nazistifascisti era ormai segnato, a Salsomaggiore tra i partigiani e le brigate nere si pervenne a una sorta di tregua, mi ricordo, una volta con tre compagni eravamo scesi fino al paese per un controllo, incontrammo un camion pieno di camice nere, che pur vedendoci e riconoscendoci, ha accelerato e sono spariti. Ho un ricordo particolare della staffetta partigiana “Vittoria”, lei portava non solo le notizie dal paese ma soprattutto ci procurava da mangiare che otteneva con le tessere annonarie».
Quando chiedevi ad Antonino Mangano cosa ti ha spinto a ad unirti alla resistenza soleva rispondere così: «La mia famiglia è stata sempre di sinistra, mia madre quando passavano le tradotte inveiva contro il duce e il re che mandavano in guerra a morire i figli della povera gente. Siamo cresciuti con gli ideali di sinistra, di pace e uguaglianza. Ideali che abbiamo e cerchiamo di trasmettere anche ai ragazzi della nostra famiglia. Mio fratello Giovanni Mangano, segretario della Camera di Lavoro di Fiumefreddo, una volta è stato arrestato per aver organizzato una manifestazione. Pertanto per me la scelta della montagna è stata naturale. Al suo funerale tanti volti noti della Sinistra locale e alcuni esponenti dell’A.N.P.I Catania, ma anche tanti grandi assenti nelle istituzioni.
Un pezzo di storia d’Italia va via, e nonostante la volontà dei familiari di non avere funerali di Stato, l’assenza di tante istituzioni si vede. L’ultimo saluto di tanti amici e compagni è nella gioia di intonare “Bella Ciao” nella sua ultima visita in piazza a Fiumefreddo di Sicilia, dove tutti preferiscono ricordarlo arzillo, lucido e battagliero, come le ultime ore della sua vita.
Concetto Barone