La richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa formalizzata dalla Procura di Catania nei confronti del direttore-editore-imprenditore Mario Ciancio non riguarda solo la singola persona, anche se formalmente è così, ma un sistema di potere che ha governato la città, nel bene e nel male, negli ultimi quaranta anni. Gli investigatori, infatti, hanno svolto oltre che indagini per così dire “correnti”, anche storiche, risalendo a episodi e circostanze che risalgono addirittura agli anni Settanta, quando sicuramente il potere del giornale cittadino, dell’unico giornale cittadino, era tale da poter essere riferimento unico per la politica, per l’imprenditoria e, sembrerebbe, anche per la criminalità organizzata.
La vicenda giudiziaria si intreccia con quella imprenditoriale. La Procura, infatti, ha trovato 52 milioni di euro su conti in Svizzera, frutto di un’eredità degli anni Settanta, afferma Mario Ciancio, ma i magistrati non sembrano essere particolarmente convinti di questa motivazione. A fronte di un così significativo “tesoretto”, il Gruppo Ciancio sta fortemente ridimensionando il suo impero editoriale. Telejonica ha licenziato i 14 dipendenti e le frequenze sarebbero state cedute per 400.000 euro a un “televenditore” di Palermo. È stato rotto il consorzio di rete tra Antenna Sicilia e Telecolor e giornalisti e tecnici, che proprio pochi mesi fa avevano traslocato in viale Odorico da Pordenone, 50, stanno preparandosi a tornare nella palazzina poco distante, che era stata frettolosamente svuotata. Ma nel frattempo 17 tecnici saranno licenziati, dopo la prima fase di ammortizzatori sociali. Queste ultime vicende hanno costretto i sei ex giornalisti di Telecolor, licenziati nel 2006 ad avviare l’istanza di fallimento e denunciare alla Procura presunti comportamenti illegittimi degli amministratori che avrebbero svenduto il patrimonio immobiliare. Una mossa fatta dopo aver atteso per cinque mesi che l’editore Ciancio manifestasse l’intenzione di voler rispettare la sentenza della Cassazione. Segnale, a quanto pare, atteso vanamente.
Un altro potente, quindi, finisce sotto i riflettori della magistratura, come già avvenuto per Raffaele Lombardo, attualmente sotto processo per vari reati e con una condanna in primo grado per concorso esterno. Lombardo, dopo un “incidente” giudiziario nei primi anni Novanta, aveva velocemente ricostruito la sua carriera politica da vicesindaco a parlamentare europeo, da presidente della Provincia a presidente della Regione, bruciandola tra un irrefrenabile attivismo politico senza frontiere e i primi avvisi di garanzia.
Intercettazioni telefoniche rivelano una grande familiarità tra Ciancio e Lombardo: tra i potenti è prassi; un rapporto, però, che si incrinò quando l’ex democristiano, trasformatosi nel frattempo in autonomista, non fece nulla per fronteggiare la rivoluzione del digitale che avrebbe spazzato via le televisioni locali e centinaia di lavoratori, come puntualmente è avvenuto. Per mesi sulle emittenti di Ciancio andò in onda uno spot-accusa proprio contro Lombardo. Dalla poltrona di Palazzo d’Orleans (e dalla delusione per una carica di ministro mai arrivata, complice Pierferdinando Casini) Lombardo è precipitato in un quasi anonimato che interrompe lui stesso con puntuali flash sui suoi impegni di pendolare delle aule giudiziarie. I suoi ex fedelissimi, da Giovanni Pistorio a Marco Consoli, hanno trovato ospitalità in altri schieramenti politici, addirittura al di là della barricata; altri, ranocchi della politica che aveva miracolosamente trasformato in principi azzurri, sono scomparsi del tutto, senza palesi segni di rammarico da parte di nessuno.
Della “Catania da bere” protagonista indiscusso è stato anche il senatore-contadino Pino Firrarello: partito da San Cono si è trapiantato a Bronte e da lì si è proiettato prima a Palermo e poi a Roma. Ha lanciato e sostenuto in politica il genero, Giuseppe Castiglione, tre figli e tanti incarichi, fino a quello attuale di sottosegretario all’Agricoltura. Entrambi sono i leader di un partito di centrosinistra che si chiama, però, Nuovo centro destra, che aspirava al 15% e, invece, arriva a stento al 2%, escludendo isole felici come Mineo, (che c’entri per caso il famoso Cara?). Firrarello, ormai ex senatore, che ha ceduto il posto proprio al genero, ma più modestamente alla Camera, per la poltrona di sindaco aveva individuato il suo delfino Salvatore Gullotta, che però ha vinto al fotofinish al primo turno e poi è malamente ruzzolato al ballottaggio. La montagna, insomma, alla fine ha partorito un topolino per di più morto. Forse la politica del clan, ancora più selettiva di quella del clientelismo becero, alla fine ha mostrato tutti i suoi limiti. E certo non addolcisce la pillola amara della sconfitta l’elezione del giovane Carlo Maria Castiglione, figlio di Giuseppe e nipote di Firrarello, con un bottino di appena 250 voti. Gli amici di comitiva e parrocchia, insomma, o poco più. Anche per il sottosegretario un avviso di garanzia fresco fresco, scaturito nell’ambito del caso Mafia Capitale, relativo agli appalti per la gestione del Cara di Mineo, vicenda alla quale si dichiara, naturalmente, estraneo. Le tracce che portano a Bronte, allora, sono solo coincidenze.
Daniele Lo Porto
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