Non luogo a procedere, quindi niente processo (tranne un eventuale ricorso in Cassazione): così ha deciso il Gip del Tribunale di Catania Marina Rizza. Si chiude così il caso della morte di Salvatore La Fata, il venditore ambulante che il 19 settembre del 2014, dopo un sequestro, a seguito di un controllo della “municipale”, della merce che vendeva in piazza Risorgimento, alla periferia di Catania, si diede fuoco.
Un gesto che ne provocò, a distanza di dieci giorni, la morte. Una vicenda terribile, emblematica del disagio sociale di una città come Catania, da troppo tempo oggetto di propaganda e manipolazioni, in realtà alle prese con una crisi economica e morale senza precedenti.
Per questa storia di disperazione e morte, la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio contro due ispettori della polizia municipale, Antonino Raddusa e Giuseppe Tornatore accusati di istigazione al suicidio nei confronti di La Fata.
Stamane, l’udienza è servita per ribadire le posizioni: da una parte la Procura della Repubblica con il Pm Agata Santonocito (ma l’indagine è stata condotta dal sostituto procuratore Agata Consoli) ha rinnovato la richiesta di rinvio a giudizio; dall’altra gli avvocati difensori, Salvatore Verzì e Pietro Marino, hanno illustrato le loro tesi difensive per chiedere l’assoluzione degli imputati. Per la Difesa non ci sarebbe stato il nesso fra l’azione (il sequestro) e la morte del povero La Fata, la cui moglie si è costituita parte civile con l’avv. Francesco Marchese.
La moglie di La Fata, con l’avvocato Francesco Maria Marchese, dopo la morte del marito aveva presentato una querela. Numerosi testimoni avevano riferito di avere udito i due vigili urbani pronunciare la frase: “datti a fuoco ma spostati più in là” dinanzi alla minaccia di La Fata che aveva espresso la volontà di darsi fuoco.
Marco Benanti