Storie di racket: si ribella al Clan. “Orgoglioso della mia denuncia e della risposta dello Stato”

La seconda parte di una drammatica intervista in esclusiva a un testimone di giustizia che si è opposto ai clan di Cosa nostra (clicca e leggi Storie di racket: “Per non svendere la mia vita ho denunciato il clan”)

Dalla denuncia al riconoscimento dello status di “testimone di giustizia”, chi denuncia deve attraversare una sorta di deserto spazio-temporale pieno di insidie, solitudine, delegittimazione. È sicuramente la fase più delicata, anche dal punto di vista psicologico, perché si è deciso di affrontare con coraggio una situazione di grande rischio e il rischio è anche quello di sentirsi solo, prima ancora di esserlo per un periodo più o meno lungo, subordinato all’esigenza di avere adeguati riscontri investigativi. Il nostro testimone di giustizia ci racconta anche questa fase, dolorosa: una sorta di via crucis che porta alla resurrezione, ad una nuova vita. Da schiavo a cittadino libero.

Daniele Lo Porto

– Quali sono i problemi psicologici, emotivi che un testimone di giustizia deve superare dal momento in cui presenta la denuncia e collabora con gli investigatori?

“Mi fa piacere che lei mi ponga questa domanda. Io direi che sia doveroso fare una precisazione: vanno separati due aspetti con cui la vittima deve fare i conti.

Il primo, scaturisce dal momento in cui quest’ultima decide di denunciare, e che quasi sempre (anche alla luce di esperienze analoghe con cui mi sono confrontato) è preceduto da un periodo di forte tensione, personale e familiare. Lei capisce bene che queste scelte coinvolgono tutto il nucleo familiare. In un primo momento la vittima tenta di minimizzare gli eventi lesivi, anche come forma di protezione nei confronti dei congiunti.

Tuttavia la verità è che ci si trova ad essere prede, braccati da un branco di lupi senza scrupoli. È inevitabile, che la paura generi ansia e la notte si dorma poco e male; così come è anche comprensibile che le Autorità Giudiziarie, (Catania dispone di una D.D.A. che non è seconda a nessuna) devono avere il tempo di svolgere le indagini, per verificare che le notizie di reato siano fondate e che possano reggere l’accusa in un futuro Processo.

È proprio questo il momento in cui le Associazioni (quelle serie), devono svolgere un ruolo fondamentale, la vittima ha bisogno di assistenza psichica, legale e tecnica. Mi spiego meglio, quando la vittima si decide a denunciare, di solito è già allo stremo delle forze, non ha più nessuna risorsa, né fisica, né materiale. In questo, il sistema ha ancora dei grossi margini di miglioramento.

Personalmente ritengo che le Associazioni, dovrebbero essere messe in condizioni di poter aiutare le vittime. Ad esempio, i nostri Tribunali hanno sequestrato decine e decine di beni alla mafia, perché uno di questi immobili non viene destinato per poter ricoverare le famiglie delle vittime, quando sono braccate e minacciate? Almeno nel primo periodo, quando ci si trova in un limbo.

Di fatto, non si è ancora riconosciute come vittime dallo Stato, ma i Clan hanno già dato la loro sentenza: “ci ha denunciato e ora deve pagare”! Andrebbero individuate le associazioni che operano seriamente e dotate di sistemi di sostegno adeguati. Non si può lasciare questa delicata fase, alla buona volontà di poche persone (che fanno vero volontariato), o peggio, all’aiuto di qualche parente o amico.

– C’è anche un altro aspetto, come diceva: è quello tecnico-giuridico? Che, immagino, risentirà dei tempi legati all’attività di polizia investigativa e non solo.

“Il secondo aspetto è quello legislativo, infatti, che merita certamente un’attenzione particolare. Negli ultimi anni il legislatore, attraverso la legge 44/99, poi modificata nel 2012, ha dato certamente un grosso aiuto alle vittime.

La legge infatti prevede, un risarcimento per le vittime, sia di natura biologica, che di natura economica. Per risarcimento biologico si intende, una somma di denaro destinata alla cura della persona che è stata sottoposta a tale stress o a traumi fisici (come nel mio caso), tale somma viene quantificata da una Commissione Medica Militare.

Il danno economico viene invece stabilito da una Commissione Prefettizia, la quale mette in condizione la vittima, di riprendere la propria attività, che ha subito il tracollo a causa dei taglieggiamenti mafiosi. Voglio sottolineare un aspetto di questa norma.

Tra i benefici previsti per le vittime, ve ne è uno particolarmente importante. Il Decreto di sospensione dei termini. Questo provvedimento viene emesso dalla Procura della Repubblica competente e serve per bloccare i provvedimenti esecutivi (per la durata di 300 giorni), che vengono intentati a danno della vittima. Non di rado infatti si è verificato che tra i creditori della vittima ci siano soggetti collegati alle organizzazioni criminali.

Purtroppo, mi spiace dirlo, ma tale provvedimento che ha un principio nobile, viene vanificato nell’applicazione, e le spiego il perché.

Il provvedimento blocca i singoli creditori che, di fatto per 300 giorni devono attendere il soddisfo dei propri crediti. Fattualmente invece, i creditori si uniscono e chiedono il fallimento ai danni della vittima, che puntualmente ottengono, poiché non è prevista nessuna efficacia della norma in caso di fallimento.

Ciò è veramente paradossale, ed è quanto mai strano che, nonostante tutte le associazioni antiracket abbiano sollevato tale problema, a distanza di anni il legislatore non sia riuscito a porre rimedio a questo vulnus giuridico. Per concludere, devo dirle sinceramente che, le forze dell’ordine in accordo e coordinate dalla DDA, svolgono un enorme lavoro e lo fanno con serietà e solerzia.

Tale ritmo non è ancora stato raggiunto, dagli altri apparati dello Stato, che non riescono ancora (a causa di una farraginosa burocrazia) a dare risposte in tempi ragionevoli. Mi piacerebbe poter rispondere un giorno, a tutti coloro che, ancor oggi continuano a dirmi: chi te lo ha fatto fare? Me l’ho fatto fare, la mia dignità di uomo e la risposta efficiente che mi ha dato il mio Stato”.

Storie che rivelano di quanta determinazione è capace un uomo che esige tutelare la propria libertà, accanto a professionisti quali l’avvocato Guarnera e la dottoressa  Maria Luisa Barrera rinunciando persino alle facili comparsate televisive perché “non sono un fenomeno da baraccone”, un uomo che ha scelto di lanciare un messaggio serio e convinto, di speranza e coraggio.

Katya Maugeri

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