La vicenda storico-politica e le gesta dell’imperatore Carlo V sono ampiamente rappresentate dalla letteratura di ogni epoca. Tra le pubblicazioni più recenti figura il volume di Salvatore Agati Carlo V e la Sicilia, tra guerre, rivolte fede e ragion di stato, pubblicato da Maimone Editore nel 2009 con un ricchissimo corredo iconografico.
Le notizie riguardanti il suo attraversamento del territorio siciliano nel 1535 sono sporadiche e talvolta imprecise o, addirittura, contraddittorie. La cronaca narra che dopo la vittoriosa impresa di Tunisi, in cui il monarca sconfisse il corsaro Khayr al-Dīn Barbarossa, Carlo V venne personalmente in Sicilia soggiornandovi dalla fine dell’agosto 1535 sino ai primi giorni del successivo novembre. Un episodio del tutto singolare se si considera che all’infuori di lui, lungo tre secoli di vicereame, nessun altro regnante mise piede in Sicilia.
Il popolo siciliano apprezzò di buon grado la presenza dell’imperatore e ovunque l’accolse trionfalmente e con manifestazioni di giubilo. Al di là dell’avvenimento storico – il celeberrimo sovrano, sui cui domini non tramontava mai il sole, faceva per la prima volta visita ai “trascurati” sudditi siciliani – c’era un substrato sociale che sperava in una radicale riforma dell’amministrazione della giustizia la cui corruzione avvantaggiava il baronaggio a discapito dei ceti più deboli.
Del passaggio di Carlo V da Randazzo rimangono sia alcune suggestive leggende – ancora vive nella tradizione popolare – tramandatici dalla letteratura locale e in particolare da Mario Mandalari e da Federico De Roberto cui ci siamo serviti come fonte narrativa, sia un documento riportato nel cosiddetto “Libro Rosso” dell’archivio parrocchiale di San Martino, datato 18 ottobre 1535 e scritto dal venerabile prete Franchisco Purchello, procuratore della medesima chiesa, con il proposito, consapevole, di trasmettere ai posteri lo spettacolare episodio.
Partito da Troina con il suo numeroso e variegato seguito, oltrepassata la contrada Gurrida, Carlo V, intravedendo un abitato con una ricca e antica architettura, chiese: “ma come si appella questa città con tre torri?” I maggiorenti della città – che nel frattempo si erano recati lì per accogliere con le formalità di rito la carovana imperiale – udendo le lusinghiere parole proferite dall’imperatore, approfittando della contingenza del momento, risposero con fierezza: “Sempreché la Parola Reale di Vostra Cesarea Maestà non deve andare indietro, è questa la città di Randazzo, dalla Maestà Vostra or ora onorata del Titolo di Città”; a che l’imperatore soggiunse: “Resta accordato”. Infatti, da allora, in tutte le scritture pubbliche e negli atti notarili, il toponimo Randazzo fu associato al titolo di “civitas” (città).
Un’altra leggenda riguarda quella dei “cavalieri di Randazzo” la cui affinità è del tutto evidente con quella del “Todos caballeros” (siate tutti cavalieri) che si rievoca a Bologna e ad Alghero. Si narra che Carlo V, compiaciutosi per le entusiastiche accoglienze e acclamazioni della popolazione di Randazzo, mentre si affacciava da una monofora nel lato ovest del Palazzo Reale (ex Casa Scala) pronunciò la leggendaria espressione: Todos caballeros che fu interpretata dalla cittadinanza come elevazione dei randazzesi al rango di cavalierato. Si racconta, inoltre, che a perenne memoria della solenne proclamazione Todos caballeros e per non consentire a nessun altro di affacciarsi dalla medesima finestra essa fu murata subito dopo la partenza di Carlo V da Randazzo. La stessa finestra, infine, pare sia stata oggetto di un altro episodio leggendario con un retroscena romantico cui furono protagonisti lo stesso imperatore e una giovane fanciulla. La leggenda narra che Carlo V attraverso quella finestra vide, invaghendosene fulmineamente, una bellissima fanciulla bionda, randazzese, ma la cui famiglia era di origine normanna. L’episodio è ricordato pure da una quartina popolare, con versi variamente rimati, ormai desueta:
E Carlu Quintu ti ‘ncurunau reggina
quannu passau intra la to’ Rannazzu,
ti vossi ‘ntra lu sonnu ppi vicina
ccu illu ti purtau intra lu parazzu.
Infine, altre improbabili leggende riferiscono che l’imperatore dimorò tre giorni a Randazzo partecipando sia alla celebrazione di tre sante messe, una per ogni chiesa parrocchiale, sia a una battuta di caccia in località “Gorga dell’Imperatore” dove avrebbe colpito un’anatra.
Un’altra circostanza che si ricorda negli annali della città di Randazzo riguarda l’antico campanile di San Nicolò, oggi non più esistente. Ridotto in condizioni fatiscenti già all’epoca del passaggio di Carlo V, preso atto delle intenzioni di abbattimento manifestate dal civico consesso, per evitarne la demolizione, l’imperatore ordinò che se ne restaurassero le fabbriche a spese del regio erario. Tuttavia, a causa delle precarie condizioni statiche del manufatto, nonostante l’intervento di rafforzamento voluto dal monarca, il terribile terremoto del 1693 aggravò le condizioni strutturali e qualche decennio dopo l’antico campanile fu abbattuto, definitivamente.
Naturalmente le leggende e gli aneddoti non suffragati da documentazione non sono verità storica. Quel che verosimilmente videro i contemporanei, invece, è desumibile da una testimonianza scritta nel “Libro Rosso” di San Martino. Il passaggio di Carlo V da Randazzo dovette rappresentare uno dei momenti simbolici più gloriosi e strabilianti per la storia della città e tale visione rimase viva nell’immaginario collettivo per lunghi anni. È ipotizzabile che l’accoglienza all’interno della città sia stata organizzata meticolosamente e che i preparativi – quasi certamente finanziati dagli stessi cittadini attraverso un’imposizione straordinaria – siano stati materialmente realizzati in sinergia tra le autorità comunali, corporazioni di arti e mestieri, residenti e clero.
L’imperatore con il suo seguito ebbe accesso intra moenia attraverso la porta San Martino. La folla entusiasta e festante nel vedere affluire una turba di uomini a piedi e a cavallo e una scolta di militi armati di spade e di alabarde che sfilavano con bardature, carri e pregiate armature, ammirava giubilante anche gli apparati scenici con li fontj plinj di aqua rossa et inantj li portj della chiesa di S. Martino ornata a festa con archi triumphalj realizzati con materiali semplici e vegetazione autoctona. I palazzi signorili esponevano i prestigiosi blasoni del casato, quelli pubblici il gonfalone e le insegne della città con il leone rampante; le campane annunciavano la festa ai cittadini, mentre l’eco arrivava alla comunità contadina e ai pastori residenti extra-moenia.
Gaetano Scarpignato