Il 31 ottobre ricorrerà il 41° anniversario del ritrovamento dei corpi senza vita di Giorgio Agatino Giammona e Antonino Galatola. Morirono insieme, li ritrovarono riversi alla Vigna del Principe, abbracciati. Avevano emendato la loro colpa, essersi amati, di una tenerezza diventata sconcertante per i più che volevano l’amore esclusiva proprietà delle coppie etero.
Cosa siano stati quei mesi lo raccontano le pagine, composte da un lessico asciutto e incisivo, adottato dall’autore, per non lasciare spazio alla retorica e penetrare più a fondo la questione. Emerge una storia di omissioni e di mancata memoria, evidente sin dalle fonti attraverso cui è stata ricostruita la vicenda, che ha fatto i conti con la mancanza degli atti ufficiali, disgraziatamente andati al macero.
A sopperire a questa mancanza sono stati gli uomini e le donne che vissero quei momenti. Voci che si congiungono dando vita ad una polifonia mediante cui ritorna l’eco di quei giorni, sin dal momento della sparizione di Giorgio e Toni, quando l’unica preoccupazione parve essere quella di risolvere con rapidità il caso; a voler nascondere sotto il tappeto la polvere di quell’evento che mal si adattava all’immagine della borghese cittadina etnea, dove, sì, i gay esistevano, si sapeva, ma potevano esistere solo nell’ideale comune di personaggi singolari, che interpretavano ruoli teatrali ai margini di un contesto sociale che li accettava solo nella consapevolezza del loro essere alterità. Così, i nomignoli, segno della deumanizzazione dell’identità dei singoli, che rendevano più tollerabile la loro esistenza. Giorgio e Toni ruppero con questa tradizione e lo fecero, inconsapevolmente, nella maniera più semplice, tenendosi per mano, condividendo passeggiate in motorino. Colpirono così le coscienze con la tenerezza, schiaffeggiarono il senso comune con l’amore, pagando questa colpa con la morte.
A ciò si aggiunge un invito al neoeletto governo cittadino, affinché Giarre torni con rispetto e discrezione alla memoria dei due ziti, riconoscendo loro il ruolo che meritano, non solo idealmente, ma nella forma più concreta del ricordo a testimonianza del segno perenne della loro presenza, risolvendo così – forse – la più grande incompiuta.
E chi scrive si augura sia così.
Silvia D’Agata