Nel 1624, tre fatti delittuosi furono rilevati, nella “Contea” di Mascali (Contea per usupato titolo da parte dei Vescovi di Catania), dal Capitano Giustiziere di Aci, Giuseppe Patania, e fatti conoscere al Viceré di Sicilia, allora Emanuele Filiberto di Savoia (il Capitano Giustiziere era tenuto a trasmettere, a Palermo, settimanalmente, su quanto avveniva di delittuoso nel territorio, ed evidentemente le sue competenze erano non solo su Aci ma anche su Mascali).
Il primo episodio (studiato, anche, da Paolo S. Sessa in “Milo” e da Gaetano Gravagno in “Storia di Aci”; Gravagno studioso, nello stesso libro, anche del secondo e del terzo episodio) riguardò il mese di aprile: uomini armati (di Aci), fingendo richiesta di ospitalità, aggredirono e rapinarono i sette monaci (fra cui, Mario Torresi) del “Monastero dell’Acqua del Milo”, di tredici tarì, di due mantelli “di arbaxettu nero”, di un palandrano “e altri cosi”; il mese successivo, in parte, la refurtiva fu ritrovata.
Il secondo episodio riguardò il mese di giugno: l’acese “parrino” don Giuseppe Ponte (che, con scandalo pubblico, conviveva con una donna sposata, pur celebrando messa ogni mattina) aveva mandato ladri, per compiere furti, “nello territorio di Mascali… quontrada Scorciavacca”, dove abitava il cugino carnale Domenico Ponte.
Il terzo episodio riguardò il mese di luglio: l’acese Masi Grasso, mentre dormiva “nella piana di Mascali… dentro la casa”, era stato assalito da un bandito e, colpito, “con una accetta nella faccia e nella spalla”, dopo dieci giorni era morto. Analizziamo, soprattutto documentalmente, i tre episodi.
Primo episodio. Lettera del Capitano Giustiziere di Aci al Viceré di Sicilia: “A Sua Ecc…per altra mia ho informato S.E. del furto di certi mantelli di arbaxetto rubati alli monaci eremiti chiamati del Milo…; fatti le informationi ho saputo dal monaco Mario Torresi del Milo che nella quadragesima andaro nel monastero uomini armati a chiedere ospitalità, ma poi che entrarono attaccaro sei persone che erano con detto padre e li portarono dentro la chiesa et domandaro a detto Mario dove erano le onze 200 che teniva e delle quali avevano avuta informattione, se no l’ammazzavano. Presiro detto Mario e dissiro ‘monaco nesci le 200 onze’ e lo portarono fora attaccandolo con le mani di arreri e anco per li pedi ad una vite dentro la vigna. Lu monacu dicia che non li avia. Li rimiscarunu tutti li stantii pi truvari ditti dinari e scassandoli li caxi, robbaro 13 tarì, li dui mantelli di arbaxettu nero, uno palandrano e altri cosi. Alli due e mezza di notti si ni andarono lasciandoli nel modo suddetto… Li aprile 1624”. Alla rapina ebbe ad avere parte un certo Domenico Maccarrone, di Aci, poiché nella sua casa, nel successivo mese di maggio, fu scoperta parte della refurtiva (i mantelli neri). Così lo stesso Capitano Giustiziere al Vicerè: “A Sua Ecc.,…ci facciamo in dovere di avvisarvi che essendoci riferito che vi era una casata vestita di arbaxetti neri forsi fatti da certi mantelli neri robbati alli monaci eremiti chiamati del Milo existenti nelli boschi di Mascali et per haver per le mani il padrone di quella casata, chiamato Domenico Maccarrone, con tutti suoi figli et moglie con li vestiti di detti arbaxetti alli quali havendo interrogati si costao essiri detti vestiti fatti delli mantelli di detti padri…Li maggio 1624”. Detto Domenico Maccarrone era imparentato con Giuseppe Maccarrone, che, catturato, nel successivo mese di giugno, aveva “permesso (al Capitano Giustiziere; n.d.a.) di mettere in chiaro tutti li furti di detti latroni” (riferendosi, soprattutto alla banda capeggiata dal sac. Giuseppe Ponte, su cui si scriverà). Paolo S. Sessa, in merito a questi documenti, bene ha riflettuto sulla loro importanza, affermando che quel monastero benedettino era ancora attivo nel 1624, quando già molti monasteri montani erano già abbandonati da anni; trattavasi di un monastero ampio, con almeno sette celle, probabilmente degli ambienti comuni e una chiesa o una cappella, con un vigneto; i banditi erano certi delle 200 onze, il che fa ritenere il monastero essere anche ricco, quando in quell’epoca, con poco più di un trentesimo di onza (trenta tarì erano necessari per un’onza), si comprava un chilo di carne di maiale.
Secondo episodio. Così, ancora, il Capitano Giustiziore, Giuseppe Patania, in un’informazione inviata al vicerè, Emanuele Filiberto di Savoia, a Palermo: “Ecc.mo, per altre mie lettere ho dato ragguaglio a V. Ecc. dei delitti e furti in campagna di questa città et territori convicini delli latroni che ho preso et reconoscenze fatte et altre che sto per fare, avvisando anco V.E. che in questi boschi erano stati scoverti dui latroni publici con scopette e scopettoni et per li contrassegni denotavano esser forasteri e aiutati e mantenuti da cittadini di questa città e che una notte havendo io avuto la detta notizia che detti latri forasteri erano nello territorio di Mascali mandati per fare furti dallo parrino don Giuseppe Ponte nella quontrada Scorciavacca unde habitava Domenico Ponte, loro cugino carnale, subito di notte a notte, mi portai con dudici compagni e ho ritrovato che detti latroni s’haviano portato altrove il giorno innanti… Altra volta ho portato a conoscenza di V.E. della presa di Giuseppe Maccarrone il quale mi ha permesso di mettere in chiaro tutti li furti di detti latroni. Sto aspettando l’ordini di V.E. perché il detto Maccarrone mi ha detto che sono stati trattenuti tanto in casa quanto nelli boschi di questa città dal parrino don Giuseppe Ponte e Jacopo Ponte, suo fratello, con darci armi per fare furti et partecipare di detti furti. Subito ho preso il detto Jacopo qual tengo carcerato. Et hora essendo conturbato per carcerare il detto parrino a nome di S. Ecc. et mi ho dubitato farlo per non incorrere nelle censure ecclesiastiche. Et ultra sappia che lo detto parrino con scandalo pubblico teni una donna maritata a sua posta et celebra missa ogni matina. Non lascio di rappresentare a V.E. che tutta la casata di detti di Ponte sono stati prosecuti di varii et enormissimi delitti et uno loro frate fu bandito et decapitato in campagna. Li giugno 1624”. Il Capitano Giustiziere, Giuseppe Patania, si dichiarava “conturbato” davanti alla possibilità di carcerare o meno il “parrino” don Giuseppe Ponte, perché questi godeva del foro ecclesiastico (se lo avesse incarcerato, infatti, il Capitano Giustiziere dichiarava che sarebbe incorso “nelle censure ecclesiastiche”). I Ponte erano una famiglia molto potente in Aci (Pietro Ponte fu “credenziero” ed “archivario” e Sindaco nel 1581, 1583, 1594, 1603 e fu giurato nel 1591; Blasio Ponte fu Sindaco nel 1607, 1608, 1609, giudice civile nel 1615 e giurato nel 1620).
Terzo episodio. Così, ancora, l’acese Capitano Giustiziere, Giuseppe Patania, in un’altra informazione, questa datata 18 luglio 1624, inviata a Palermo, al Viceré Emanuele Filiberto di Savoia: “Ecc., nel presente mese Masi Grasso di questa città essendo nel suo loco nella piana di Mascali che dormiva dentro la casa fu assaltato da una persona con ferriolo in testa (una sorta di mantello; n.d.a.) che lo colpì con una accetta nella faccia e nella spalla, di manera che d’allora che fu ferito non potè parlare e doppo giorni deci si norse”.
Per i puntuali riferimenti bibliografici e per altri dati e valutazioni storiche su questi episodi, il mio: Antonino Aibrandi, “Mascali e il suo territorio – La Storia- Dai Bizantini a Carlo III di Borbone (535-1759)”, Amazon, Leipzig, 2023.
Antonino Alibrandi