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“Vite indegne di essere vissute” e memorie dello sterminio

“Vite indegne di essere vissute” e memorie dello sterminio

La giornata nazionale dedicata alla commemorazione delle vittime della Germania nazista viene ricondotta quasi unicamente all’atroce sterminio del popolo ebreo, la Shoah. In realtà, quella pagina di storia si rivela assai più stratificata nell’intento nazista di perseguire l’istituzione di una razza pura e “superiore”. Le persecuzioni e le violenze che da quella causa discesero furono infatti primariamente rivolte alla popolazione con disabilità.

La volontà di epurare il popolo tedesco e di eradicare coloro i quali rischiavano di contaminarlo riguarda vicende che a lungo sono state sottaciute dalla storiografia dello sterminio di quell’epoca o considerate mere appendici dei tragici fatti che la riguardarono.

Il paradigma su cui si fondarono i presupposti di quel progetto di distruzione,  che fu designato col nome di Aktion t_4 (abbreviazione di Tiergartenstrasse, la via in cui era situata la centrale operativa) fu costituito dall’eugenetica, nascente disciplina a carattere scientifico volta a produrre un perfezionamento della “specie” attraverso la selezione di fenotipi ritenuti validi.

Essa fu considerata uno strumento efficace non solo per migliorare il Volk, ovvero il popolo come stirpe, ma anche per rispondere alla necessità di ridurre le spese legate alle cure, compresa l’ospedalizzazione, delle persone con disabilità in una Germania estremamente segnata dalla crisi sociale ed economica che la Prima Guerra Mondiale aveva sortito con annessa la penetrazione coloniale.

Solo successivamente l’Aktion t_4 venne ricostruito e storicizzato grazie alle ricerche meticolose svolte prevalentemente per volontà delle Associazioni di categoria e delle persone direttamente coinvolte.

L’eugenetica preesisteva al regime collocando i suoi albori nel XIX secolo, ma fu nei primi decenni del ‘900 che rafforzò le sue basi facendo convergere su di sé diversi apporti disciplinari diffondendosi nel panorama occidentale. Il prestigio accordato alle scienze mediche, che primeggiavano nell’opera di  legittimazione, unitamente al corollario filosofico che la caratterizzava, ne sancì una rapida adozione e riconoscimento sociale che presto rese l’eugenetica asservita alla causa nazista la quale, parimenti ad altri paesi, mirava ad una società libera da contaminazioni etniche ed in piena salute fisica e mentale.

L’appello all’individuo sano e robusto e, con esso, il culto del guerriero e del corpo perfetto presenta un’indiscutibile ricorsività storica che suggella la sua profonda penetrazione nei valori e nella sovrastruttura del pensiero occidentale.

Così la ricerca di quell’idealtipo, rimessa al fanatismo esasperato ed alle estreme conseguenze che contraddistinsero le finalità del regime, fu sposata da medici, esperti e personale dell’ apparato sanitario, i quali si resero protagonisti, insieme al complesso impianto del regime e dei suoi dispositivi, di azioni tra le più atroci e incomprensibili al senso umano che la storia abbia consegnato.

Prima dell’ascesa al potere di Hitler, gli assunti dell’eugenetica avevano già fatto presa nelle idee delle classi ai vertici: “La società tedesca per l’igiene della razza” impiegò in maniera ricorrente espressioni come Minderwerting (“esseri inferiori”), Leere Menchenhulsen (“involucri vuoti”) o Levesunwerters Leeben (“vite non degne di essere vissute”) fino a che non diventarono di uso comune, nel pieno della Repubblica di Weimar, anche da democratici, studiosi ed intellettuali. Noti rappresentanti del mondo intellettuale, tra l’altro, si esposero pubblicamente sostenendo che molte condizioni, come il ritardo mentale grave, costituivano un “onere terribilmente difficile da portare […] Un’autentica appropriazione indebita di risorse umane preziose” (Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista, 2021, p. 24).

Nel 1920 Karl Binding, giurista tedesco, e Alfred Hoche, psichiatra, pubblicarono un testo intitolato “L’autorizzazione per la distruzione della vita che non merita di essere vissuta”. Qualche anno dopo, Hitler fece propri quei principi e nel suo Mein Kampf definì le persone con disabilità “aborti tra l’uomo e la scimmia”.

Il 14 luglio 1933, sei mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere, entrò in vigore la “Legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie genetiche“. La stagione della sterilizzazione, per la quale non era previsto il consenso dei soggetti, coinvolse circa 300.000 persone prima del conflitto e circa 75.000 dal ’39 al ’45.

Il passo successivo alla sterilizzazione fu l’eliminazione.

Nel nome di quel tristemente celebre obiettivo che era la garanzia della purezza alla propria stirpe fu interrotta la vita di migliaia di persone. In principio furono i bambini. L’operazione, che coinvolse medici e ministeri, venne camuffata e presentata formalmente come una serie di “Interventi terapeutici disponibili resi possibili da recenti scoperte scientifiche“. Le strutture ospedaliere avrebbero dovuto compilare apposita modulistica avente lo scopo di segnalare i piccoli pazienti che necessitavano di cure all’avanguardia; ma mentre i genitori erano convinti di firmare il consenso che avrebbe consentito ai bambini di accedere a trattamenti innovativi, di fatto i piccoli venivano condotti in vere e proprie fabbriche di morte. Alcuni decessi furono causati da inedia, altri da overdose di farmaci, altri ancora da viaggi massacranti stipati ed ammassati in camion deputati a condurli negli ospedali “specializzati”.

Il numero delle vittime non fu inferiore ai 5000 bambini.

Lo sterminio degli adulti con disabilità richiese maggiori risorse umane ed un’organizzazione ancora più capillare che coinvolse diversi amministratori locali. G. Schluter, posto a capo della sezione per la politica sociale ed il sistema ospedaliero, fu designato per istruire i borgomastri sull’ iter stabilito per compiere l’ operazione: “Programma eutanasia”. Parecchi anche i medici ed il personale ospedaliero che furono coinvolti.

La selezione avveniva sulla base del giudizio da parte degli esperti circa le condizioni di salute e dell’utilità sociale dei pazienti.

Nei centri per l’eutanasia vennero per la prima volta nella storia dell’umanità utilizzate le camere a gas che, esattamente come nei campi di concentramento, somigliavano a docce.

Quando l’operazione divenne di pubblico dominio furono sollevate opposizioni: da parte dei leader protestanti, dei rappresentanti della chiesa cattolica, fino all’intervento delle forze della magistratura che chiesero ragione della sparizione di migliaia di persone. In questo clima, Hitler sospese il programma ed i luoghi deputati allo sterminio furono smantellati. Ciononostante gli omicidi continuarono compiendosi negli stessi ospedali per mano di medici e infermieri: come per i bambini, la morte veniva camuffata da un eccesso di farmaci o da malnutrizione. Questa particolare fase fu chiamata “Eutanasia selvaggia”.

Se in casa propria i nazisti scelsero discrezione, sul fronte orientale agirono in maniera deliberata eliminando altre migliaia di esseri umani con metodi atroci e brutali.

In quegli anni furono inoltre espiantati migliaia di cervelli umani per motivi di studio, alcuni persino da persone ancora in vita. Gli organi oggetto di ricerca e sperimentazioni passarono agli istituti scientifici sorti dopo la guerra e solo diversi decenni dopo trovarono degna sepoltura.

L’Aktion T_4 ed il determinismo biologico che lo sorreggeva costituirono il medesimo terreno di legittimazione per il massacro di milioni di ebrei e centinaia di migliaia di rom e sinti.

Quali che ne siano le ragioni, l’ omissione delle vicende legate all’Aktion t_4 testimonia ancora una volta la difficoltà che le persone con disabilità hanno attraversato per inserirsi nella dimensione della rilevanza storica restando a lungo vittime silenti della diffusa tendenza alla loro rimozione.

Tematizzare la narrazione riguardante la popolazione con disabilità ed integrarla nel più ampio scenario degli intenti epurativi cui l’eugenetica aveva dato seguito, non rappresenta un mero dovere di cronaca, per quanto importante sia una rigorosa ricostruzione dei fatti, ma significa riconnetterla a quella trama di vicende che per secoli le hanno negato identità, significazione e la possibilità di essere parte della storia, soggiacente com’è stata alla presunzione di irrilevanza umana prima ancora che storico-culturale.

Da castigo degli dei a vita indegna di essere vissuta, la storia rimanda ad una inequivocabile linea semantica e ad un destino che le società vedrebbero implicitamente segnato sulla base di evidenze genotipiche e/o fenotipiche.

Non è casuale che il medesimo secolo, negli anni successivi al secondo conflitto, abbia generato una pregnante letteratura impostasi per la prima volta in merito all’eredità simbolica e valoriale costruita attorno ai fragili della storia: Goffman con la sua calzante Identità Negata e E. De Martino con la Crisi della Presenza ne sono un esempio; sino a giungere ai movimenti formatisi in seno alla medesima popolazione con disabilità, come il Movimento per la Vita Indipendente o i Disability Study per citarne alcuni.

Raccontare la storia senza volontarie estromissioni di fatti o persone non mira ad una democratica celebrazione commemorativa ma, almeno in questa sede, ad una riflessione su quanto alcuni elementi di quel paradigma, senza considerare le azioni brutali che erano connesse al regime, continuino a veicolare lo sguardo ed il giudizio intorno al mondo della disabilità.

Alessandra Strano

Bibliografia

Alice Ricciardi Von Platen, Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, 2000, Casa editrice Le Lettere;

Enrico Girmenia, l’Eutanasia nazista, 2016, Armando Editore.

Herny Friedlander, Le origini del genocidio nazista, 2021, Edizioni Res Gestae.

Gotz Aly, Zavorre, 2017, Einaudi;

Matteo Schianchi, Storia della disabilità, 2012 Carocci editore;

Matteo Schianchi, La terza nazione, 2009, Feltrinelli.

Così i nazisti sterminavano i disabili

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