Il vano sogno, l’ultima fatica di Franco Pappalardo La Rosa -
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Il vano sogno, l’ultima fatica di Franco Pappalardo La Rosa

Il vano sogno, l’ultima fatica di Franco Pappalardo La Rosa

Sono state scritte molte pagine sulla famiglia palermitana dei Florio, di origine calabrese. Nota è la storia di questa famiglia che, da commerciante di spezie sin dalla fine del Settecento, nei decenni diventa un’icona nel mondo degli affari e dell’imprenditoria siciliana: le flotte per la navigazione, le tonnare, la fonderia, la fondazione del  giornale “L‘Ora”. E si è scritto, anche, dello sperpero e del crollo, a fine degli anni venti del Novecento, di questa fortuna per mano di Ignazio Florio, quartogenito dell’impresa a partire dal bisnonno Paolo semplice ma intraprendente speziale.

Il Vano Sogno, l’ultimo romanzo di Franco Pappalardo La Rosa, però, ha l’originalità di ripercorrere, a tratti, la storia dal punto di vista di Ignazio, che oramai anziano è immerso nei ricordi cercando di dipanare la sua movimentata vita. Nel romanzo la voce narrante e quella di Ignazio Florio costituiscono i due punti di vista della storia: quella oggettiva e quella soggettiva di chi l’ha vissuta.

L’anziano Ignazio ha intanto un desiderio, essendo il globo terracqueo più o meno tunno, quello di vedere passare il suo l‘Aegusa, il suo sessantadue metri, a vele e a vapore. Ma sapeva che il suo era un gioco d’immaginazione perché il veliero era stato distrutto nel 1943 da una bomba. Il romanzo, dunque, parte dalla fine dell’epopea della famiglia, quando Vincenzo da ricco imprenditore si ritrova ospite a Mondello presso la casa della nipote, in una “stanzitta”, in  cui attraverso un oblò può vedere il mare, che gli ha dato tanta ricchezza.

L’uomo oramai è in balia della serva Cettina che su una sedia a rotelle lo sposta dalla sua piccola stanza al terrazzo di casa. Non più giovane, ricco e grande seduttore, come è stato ricordato, ma anziano dal viso scarnito, d’una maurizza floscia, ne mostrava lo sfacelo della pelle jallastra, raggrinzita, punteggiata d’una miriade di macchie marroni tipiche dell’età avanzata.

Così si diventa vecchi, ma per Ignazio Florio tutto ciò era inimmaginabile, perché lui e la sua Franca Jacona della Motta di S. Giuliano, giovanissima e bellissima, di una famiglia nobiliare in decadenza, avevano attraversato e segnato il clima palermitano ed europeo  della Belle époque.

Il romanzo con leggerezza calviniana racconta la storia di un felice segmento storico della Sicilia, quando la famiglia sostenne Francesco Crispi nella sua idea politica dell’unità d’Italia. Sostegno che venne ricambiato da Crispi e da Rudinì, quando da presidenti del Consiglio del nuovo Stato e da buoni siciliani sostennero gli interessi della famiglia, creando anche opportunità di lavoro nell’isola.

Nel romanzo, tra la descrizione di fiabeschi ricevimenti della coppia Florio, anche in onore dei reali d’Italia e d’Europa, e di viaggi lontani con servitù e amici al  seguito, si pone il dubbio se la famiglia abbia ceduto alla mafia. La risposta non è chiara perché la famiglia ha sempre negato nonostante fatti inquietanti siano avvenuti ai danni del loro patrimonio.

E sulla vicenda del Banco di Sicilia culminato nel 1893 con l’omicidio dell’incorruttibile suo presidente Emanuele Notabartolo, l’anziano Ignazio ricostruisce nei dettagli tutta la storia al giornalista del “L’Ora”, Rosario Licata, che lo intervista per una rubrica del giornale. Alla domanda come mai lui ricordasse i dettagli di tutta la storia nonostante i decenni trascorsi, alludendo al fatto che i Florio furono coinvolti perché il fratello del principale  sospettato del delitto del Notabartolo, Raffaele Palizzolo, spesso era ospite in crociera dai Florio. Raffaele Palizzolo era un uomo inquietante, faceva favori a tutti ed era membro del consiglio di amministrazione dello stesso Banco. All’insistenza del giornalista Ignazio risponde che tale erronea conoscenza non pochi incomodi alla famiglia mia e discrediti alla Ditta Florio causò. Il giornalista finita l’intervista andrà via senza voltarsi, forse non aveva creduto alla versione di Ignazio Florio.

Non solo mafia, Ignazio e Franca partecipano, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, alla ricca vita culturale di Palermo. In città si registrano le presenze di Guy de Maupassant, Matilde Serao, Oscar Wilde, Trilussa e del  vate Gabriele D’Annunzio, amico personale di Franca, ed ancora quella dei musicisti Richard Wagner, Puccini, Leoncavallo. La vita della famiglia borghese dei Florio, però, è eccessiva, i paradigma non corrispondono alla tipica e mitica sobrietà della cultura borghese. Lo sperpero invade la vita, condotta spesso separatamente, dei due coniugi. E poi Franca, Francuzza, che mal sopporta i mille tradimenti del marito, forse si vendica con la dissipazione del denaro. La donna mai ricambiò con la stessa moneta ciò che subiva, allora più di oggi, e seppure ricca, da parte offesa  poteva diventare carnefice, cioè adultera, sia per la legge che per la comunità.

Una vita imprenditoriale e coniugale travagliata: adultéri, una figlia morta ed anche un figlio e dopo il tramonto politico di Crispi e Rudinì anche le imprese sostenute dallo Stato cominciano a vacillare. Gli imprenditori del Nord pressano il governo per smobilitare ciò che si era investito in Sicilia. Il porto di Genova invece che quello di Palermo. I Florio subiscono una sconfitta economica dopo l’altra, Ignazio da anziano si autoassolve e ricorda tutte le iniziative economiche alternative che aveva avviato, ma senza successo. La mancata liquidità faceva andare in fumo ogni progetto.

Nel romanzo la triste sconfitta dei Florio è la metafora di come inizia l’unità d’Italia: un miscuglio di responsabilità personale dei siciliani, della politica che abbandona l’isola, degli interessi economici degli imprenditori del Nord. Un miscuglio che oggi è tornato indietro come una risacca.

Il romanzo, infine, utilizza il dialetto, vera e propria lingua. Lingua che l’autore conosce pienamente, essendo di origini siciliane, e che condivide con i propri personaggi. Questo escamotage letterario ci riporta alla Sicilia in cui anche i nobili e i borghesi, oltre al popolo, pensavano e parlavano in dialetto. La lingua unitaria è ancora molto da venire.

Nunziatina Spatafora

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